Tra dire e non dire
I manifesti silenziosi, Il Quotidiano del Sud, edizione di Cosenza, pp. 14-15, Lunedì 17 novembre 2014
di Massimo Celani e Marina Machì
Niente di scientifico per carità, solo qualche
considerazione tesa all’oggettività in materia di comunicazione elettorale.
Dobbiamo smetterla di pensare che il parlare sia
contrapposto al fare. Con il parlare e nel parlare si compie un determinato
atto, chiamato atto linguistico, un atto che produce qualcosa, un cambiamento
dentro di noi e/o intorno a noi. Parlando si produce necessariamente un
cambiamento, nel parlare l'individuo compie sempre un'azione, perché dire è
fare. Sono questi gli assunti da cui parte la filosofia degli atti linguistici
(siamo negli anni ‘50). La teoria degli atti linguistici si basa sul
presupposto che con un enunciato non si possa solo descrivere il contenuto o
sostenerne la veridicità, ma che la maggior parte degli enunciati servano a
compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo, per esercitare un
particolare influsso sul mondo circostante (Austin, il padre della teoria degli
atti linguistici nella filosofia tenne nel 1955 una lezione all'università di
Harvard dal titolo "How To Do Things With Words" (Come fare cose con
le parole). Premesso tutto ciò, crediamo sia lecito praticare una lettura semiologica
e preoccupatamente sintomatica degli enunciati – e pure dei silenzi –
utilizzati nei manifesti di questa campagna elettorale.
Per la verità non si tratta solo di slogan. Contano anche le
modalità di affissione, più o meno aggressive, chi “copre” chi, spesso fuori dalle
logiche di schieramento contrapposti, i numeri e la potenza di fuoco della
macchina elettorale. In questo caso riverbera l’operato degli attacchini,
spesso più realisti del re, più agonisti dei candidati ormai abituati al cambio
di partito e allo scivolamento da una sigla all’altra. Con una nonchalance
forse non condivisa dagli attacchini, forse gli ultimi veri, ruspanti,
militanti/militonti, capaci di prendersi a mazzate a via Popilia o alla
villetta di viale Trieste. Comunque fidelizzati al locale leader maximo e per
questo capaci di perdonare il cambio di insegne e di partito.
Succede così che
Franz Caruso, da gentleman qual è, decida di scusarsi per l’implacabile
copertura adoperata nei confronti di un evento teatrale. Ma dimentica di
scusarsi (e l’occasione era irripetibile) per la pochezza, per la bruttezza del
suo manifesto. Fondo tricolore slavato, certo sovradeterminato dall’esplosione
dei colori del marchio del PD, un bianco rosso e verde trattenuto, il tricolore
è pur sempre storicamente marca nazionalista dello schieramento un tempo
opposto.
Menzione d’onore al bellissimo slogan di Fabrizio Falvo “ritorno di
fiamma”, peccato sia avvilito dalla sciatteria della composizione tipografica.
Ritornando a Caruso, scrive “la Calabria che cambia”. In che senso? E’ il
candidato un artefice del cambiamento, ha mai cambiato qualcosa, anche un
calzino non intonato o il nodo della cravatta sempre perfetto anche quando
marchionnescamente casual non l’indossa? In cosa è mai cambiato? Al contrario,
sembra sempre uguale a se stesso. Sorridente, gentile, elegante, una specie di
Dorian Gray, identico nei secoli. Dice qualcosa che avrebbe potuto dire,
indossandolo meglio, Mimmo Talarico. Il quale invece opta per “riferimento
sicuro”.
Si tratta di un chiasmo, una relazione a X: Caruso dice ciò che
avrebbe potuto dire meglio Talarico. E viceversa. Sempre a giudicare
dall’indossabilità degli enunciati, vale a dire tenendo conto della pertinenza,
la credibilità, l’autenticità, la storia politica del candidato. In un altro manifesto, Talarico, che è uno che
messo alle strette “cambia”, specifica per chi sarebbe un “riferimento sicuro”:
per la cultura, per i giovani, per chi innova. Già così il concetto risulta
meno astratto, prova a delineare qualche segmento di target privilegiato. Il
limite resta proprio in quel “riferimento sicuro”, poco in linea con la forma mutevole,
variabile e liquida dei partiti, buono per chi ha una memoria prodigiosa o –
stessa cosa – per gli elettori senza memoria. Qualche anno addietro fecero un
po’ di rumore i manifesti con la sua carta d’identità in formato 70x100 e con
su scritto “identità politica certa”. Rischioso perseverare brandendo direzioni
politiche certe e sicurezza. Di questi tempi si è liberi di cambiare, i
cittadini ci sono abituati. I partiti quasi più non esistono e l’unico
residuale molto presto (non occorre zingara o sfera di cristallo) si spaccherà.
Anche Wanda Ferro, formatasi in un-partito-uno che non c’è più, mette le mani
avanti e dice di sentirsi “a mani libere”, cioè sufficientemente disubbidiente
e aperta ai cambiamenti. Abile ma pur sempre un atteggiamento che fa virtù
della necessità, un espediente retorico (e non è una parolaccia) per dire della
discontinuità nella continuità: sono sulla scia di Scopelliti ma sono meglio.
Carlo Guccione, che almeno non esibisce il suo sembiante imponente, si limita a
un abusato “si volta pagina”, prefissato dall’ hashtag (vale a dire “seguimi su
twitter e/o su facebook”). Detto tra parentesi, di chiocciole e cancelletti
(che altro non sono che “trending topics”, collegamenti ipertestuali che
fungono da etichette), così modaioli e Renzi-fashion, moriremo seppelliti un
attimo dopo l’abuso di puntini sospensivi e virgolette. Oltre che da una risata
che inevitabilmente accompagnerà la sottovalutazione di quanto il gap
tecnologico caratterizzi la nostra regione. Presente fino alla precedente
consiliatura, ci chiediamo quanto sia credibile una promessa del genere. Forse
è un auspicio di cui si sente la necessità, ma a giudicare dal niente da dire
lì concentrato, sembra ben difficile che si avveri. In un altro soggetto di
manifesto (stesso autore) si evoca “il vento del cambiamento”. S’intende il
riferimento al governo regionale uscente, ma la repentina metamorfosi del suo
partito in “direzione” berlusconiana non ci fa immaginare una folata che spazzi
via il pregresso.
Certo il candidato Presidente ha finora resistito al renzismo
e ai suoi diktat, ma un “si può fare” di terza mano non prefigura cambiamenti
radicali. Enunciato pigro, s’intende come una forma di reticenza: almeno non
promette niente, attenendosi al registro del possibile.
Avrebbe potuto dire “la forza dell’esperienza”, cosa che
scrive su un manifesto Pino Gentile. E’ vero: Mario Oliverio e Pino Gentile
hanno quella forza tranquilla sedimentata nel tempo. Sono nati e cresciuti
nella politica. Possono enunciarlo o meno ma è un elemento di verità che
nessuno discute (salvo invocare la rottamazione).
Morrone opta per la consueta
forma silenziaria ed evita gli slogan (nel 2010 aveva scritto a corpo piccolo
“impegno e concretezza”). La vecchia volpe sa che tanto i manifesti servono a
poco e niente e che tutto si risolve su un’altra scena molto più concreta.
Tace
anche Giacomo Mancini, mostrandosi sorridente in una bella foto.
Senza slogan
anche Gianpaolo Chiappetta, fotografato in atteggiamento pensieroso forse più
adeguato alla criticità della situazione politico-sociale (salvo poi sbizzarrirsi
in uno spot ironico al punto giusto). dammi voce
Magarò sceglie da tempo una retorica del silenzio ancora più
radicale e non stampa manifesti. Almeno non partecipa alla guerriglia delle
affissioni e non imbratta i muri. Se in qualche circostanza ne ha stampato
qualcuno mostrava non la carta d’identità ma il certificato dei carichi
pendenti (immacolato: cosa che per un politico meridionale è merce assai rara).
Al contrario, Maurizio Orrico di manifesti ne ha realizzati tanti. Come è
giusto che sia per un neofita. E i primi due della serie avevano fatto ben
sperare, per l’eleganza, per l’allusione alla bellezza, per una sobrietà di
fondo. I successivi hanno invalidato lo start, ha cercato la provocazione e il
discorso si è incasinato oltremodo. Peccato.
Non voleva essere una rassegna esaustiva e ci scusiamo se ci
sono sfuggite altre soluzioni comunicative più interessanti. Da notare in
conclusione il ritorno delle croci sul simbolo e della dicitura “scrivi XY” (un
tempo riservati ai soli facsimili). Un atteggiamento regressivo che fa il paio
con il sempre più raro utilizzo di professionisti della comunicazione. Ci fu un
tempo in cui qualche candidato aveva preso a utilizzare qualche agenzia
pubblicitaria e a dialogare coi laureandi e laureati di Scienze della
comunicazione. Ora quasi non c’è più nemmeno il corso di laurea.
Per
tutto ciò, per i destini della nostra regione, per il fare preannunciato da
questi modi di dire, non nascondiamo qualche motivo di preoccupazione.I manifesti silenziosi, Il Quotidiano del Sud, edizione di Cosenza, pp. 14-15, Lunedì 17 novembre 2014
Andrea Amoroso mi segnala un mostruoso "leader maximo". Ovviamente si trattava del "Lider màximo". E maledetta sia la sudditanza nei confronti della lingua inglese
RispondiEliminaFrancesco Frangella propone un bel titolo alternativo: "I manifesti ca 'un dicianu nente"
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